Addio, Alina Bonar Djachuk

Quanti erano quel pomeriggio di martedì, 15 maggio, in piazza della Borsa, a Trieste, a pochi metri dalla Questura, quale testimonianza e protesta democratica per la triste e tragica fine della giovane donna ucraina, Alina… erano forse 300 o forse più,… o quanti non so dire, ma tanti erano i cuori, quante le anime, unite in un solo abbraccio con lei. Poco importa il numero…, certo, potevano essere molti, molti di più, nella città della Risiera, della Resistenza, di Pinko Tomazic e Gabriele Foschiatti…, ma poco serve, quasi nulla conta – dicevo – il numero, la quantità o la misura di chi era presente, perché la rabbia e il dolore per il virgulto Alina Bonar Diachuk, troncato anzi tempo, non si può certo misurare in termini di quantità , quasi volgare il numerare o contare le presenze, perché la dimensione del lutto patito non ha confini né orizzonti. È immenso, incommensurabile. Potevano essere anche molte migliaia, o quante ne possono contenere le doline del Carso ed i paesi dell’altipiano, da Sgonico a Dolina – San Dorligo o da Monrupino – Repentabor a Barcola o al rione di San Giovanni. Quel che contava, in quel momento, veniva rivelato da un cuore solo, grande, quello  anche degli assenti ma vicini a lei, Alina, uomini e donne di tutta una comunità giuliana, quella del centro e della periferia di Trieste, fino al paesaggio suggestivo del Carso, che pulsava il sangue dello sdegno e dell’ansia di libertà e giustizia, che rivelava la volontà di sapere realmente perché un giovane germoglio si è spezzato, come d’incanto, quella mattina primaverile del 16 aprile. E ancora per manifestare la vergogna di tutta una città, e quale città…! Che vanta più culture e religioni, più lingue e più popoli, molteplici anime e realtà antropologiche, ancora da analizzare e approfondire con studi seri ed attenti. Realtà che continuamente si compenetrano e si fondono, nonostante marginali e vaghe resistenze di parte e nazionalistiche. Perché il germoglio Alina, da poco sbocciato e giunto con tanta speranza nel nostro Paese si è inaridito, senza più luce vitale, nell’oscurità di mura ammuffite e aride, mura che parlano di prigionia e di chiusura, in una parola sola, di repressione. Mura alte come quelle che l’architetto Boico fece costruire, formando con voluto e riuscito senso oppressivo, la rinnovata entrata nella Risiera di San Sabba, luogo di martirio antifascista. Per la nostra, la voglio definire così, con l’affetto che finora le abbiamo negato, per la nostra Alina – dicevo – poche parole ma sentite, sgorgate dal petto e dall’anima più profonda di noi tutti, quel pomeriggio primaverile colorato di timidi raggi di sole, di martedì 15 maggio 2012, molte mani plaudenti ma riempite di sdegno per la scritta “epurazione” che spuntava dietro la scrivania di quel tale che indegnamente sedeva alla Questura di Trieste (vedasi “il Manifesto” del 16 maggio c.a. a pagina 3).
Ed anche molti, innumerevoli ed intensi i pensieri d’ amore che si elevavano, quel pomeriggio, fino alle rade nuvole  presenti nel cielo e che volavano ancora in alto, lassù, in alto… fino ed oltre le stelle della sera, le stelle della speranza per un mondo di eguaglianza e libertà, senza più sciocchi e inutili appellativi di “clandestino” né guerre o avvoltoi mascherati e chiamati poi missioni di pace.
I cuori di tutti, infine, battevano con ansia per l’angoscia di fronte all’orrore che sembra di nuovo tornato a Trieste.  Perché non lo vogliamo quell’orrore e con forza e determinazione lo vogliamo respingere, orrore di sapore razzista, e poi, se per caso volesse affacciarsi e fermarsi sulle teste di noi, anziani e giovani, andrà fermato e sconfitto, allontanato anche dai nostri figli. Alina Bonar Diachuk, quella mattina del 16 aprile, ha già urlato il suo fermo e deciso rifiuto! Ha preferito, di fronte al muro di indifferenza e di vuote attese, muro di burocratica e algida incomprensione, che a lei si presentava quella mattina d’aprile, ha preferito porgere alla fredda cordicella che portava nella felpa, il suo tenero collo e, come una resistente della guerra di liberazione, ha scelto la libertà, un mondo senza repressione e violenza, ingiustizie di sorta o diseguaglianze. Come i partigiani prigionieri e presi in ostaggio in quell’anno 1944, impiccati e poi appesi all’interno del “Conservatorio Tartini” di via Ghega, senza alcuna pietà lungo le scale, si è abbandonata alla stretta mortale della corda. Con un gesto liberatorio e insieme di ribellione, atto rivoluzionario, ha scelto un mondo senza orizzonti e senza i confini sciocchi dei nulla-osta o dei decreti delle vergognose espulsioni. Se n’è andata via per sempre, con disperazione ma con dignità. Addio Alina, giovinezza nostra, addio.
Claudio Cossu

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