Perché voi non verrete verso di noi non potremmo condividere un rapporto.
Una griglia di tralicci atti a simboleggiare il muro di una casa, così si presenta all’apertura della scena lo spettacolo di Mark Medoff , Figli di un Dio Minore. In alto le finestra attraverso le quali tutto si vede in controluce, offuscato e velato da colori soffusi, mentre una danza unisce linguaggio del corpo a quello dei segni.
Si inizia senza la parola, con l’utilizzo dei movimenti, quasi una danza alla quale si unisce la lingua dei segni; ci si aiuta con un linguaggio scritto e proiettato. Si parla la disabilità spostando la difficoltà da una gamba all’altra; a tratti sono i non udenti ad avere difficoltà nel comprendere completamente ed appieno la parola, a tratti ed allo stesso modo il pubblico udente si ritrova disabile nell’incapacità di comprendere la lingua dei segni. Una sensazione che violentemente ci porta in un mondo non abituale alla maggior parte di noi pubblico del teatro Rossetti. In sala però anche moltissimi i sordi che godono appieno di questo spettacolo rendendoci fermamente consapevoli che non sono molti gli spettacoli dedicati a loro che sono penalizzati anche in questa mancanza.
Inizialmente nel sottofondo una musica lancia grida. Siamo negli Stati Uniti d’America e sono gli anni ’80.
Nel linguaggio con il non udente bisogna ricordarsi di parlare guardando la persona. Questo è quello un logopedista cerca di ricordare mentre insegna l’utilizzo della parola ai non udenti. Uno spettacolo che funge da lezione di vita oltre che da avvicinamento ad una nuova lingua. Splendide le scenografie di Andrea Stanisci che si avvalgono anche di proiezioni di giochi di ombre miste ad una sensazione di vedo non vedo. L’utilizzo di elementi di arredamento sono con colori predominanti quali il grigio neutro, che per eccellenza permette di far risaltare il resto dei colori che hanno un significato ben preciso, allo stesso modo permettono al messaggio di arrivare in maniera più netta.
La storia è quella della costruzione di un amore per il quale i protagonisti si impegnano a non permettere mai a nessuno di interporsi tra di loro. Purtroppo anche in questo caso come in molti altri, questa premessa è destinata a fallire causa le grandi difficoltà che a volte ci allontanano dall’amore fisicamente senza per questo farlo empaticamente.
Si racconta come un sordo può sentire la musica con le vibrazioni che arrivano dal terreno e si propagano attraverso il proprio il corpo.
Vengono raccontate le discriminazioni sul lavoro, nella mancate assunzioni e nell’esclusione da certi ambiti lavorativi.
Il tuo silenzio mi fa paura. Io non potrò mai portati nel mondo dei sogni e tu non potrai mai portarmi del tuo silenzio.
La lontananza e la divisione mi porta a pensare che Siamo tutti figli di un Dio minore perché tutti siamo soli nella nostra vita. Chi è più fortunato non lo scopre mai, ma la maggior parte delle persone anche se in occasioni e modi diversi, sperimenta questa sensazione. A volte basta invecchiare per comprendere determinate cose che spesso diamo per scontate: molte le coppie che alla fine della loro vita o verso la fine della loro vita si ritrovano a dover affrontare grandi difficoltà per le quali si ritrovano divisi, soli, nellincomunicabilità.
Commovente, vero, importante, eccezionalmente potente e crudo: emozionante e umano. Uno spettacolo che ci avvicina all’altro, nella sua difficoltà che altro non è che lo specchio della nostra incapacità di comprendere il mondo e la sua bellezza nella diversità.
©LauraPorettiRizman
INTERVISTA©LauraPorettiRizman ad ANDREA STANISCI
Sono arrivato a questo lavoro perchè sono stato contattato dal regista Marco Mattolini il quale era da tanto tempo che pensava ad allestire questo lavoro. Una delle difficoltà era trovare un produttore e questo è arrivano nelle vesti dei rappresentanti delle a.ArtistiAssociati e Officine del Teatro Italiano OT.
Tra le molte esigenze c’era bisogno di un attore principale molto capace e disponibile. Giorgio Lupano con grande disponibilità e coscienza professionale ha affrontato un anno di studio della lingua dei segni e, a tal proposito, in questo periodo ho imparato nel dire lingua e non linguaggio.
Abbiamo dovuto, noi come chiunque si avvicini a questo testo, rispettare le richieste dell’autore che esige degli attori sordi nei ruoli interpretativi, e trovare simili competenze per fare questo lavoro non è stato facile. Abbiamo lavorato con un progetto apposito per sei mesi presso l’istituto dei sordi a Roma; due degli attori vengono da questo laboratorio.
Rita Mazza, interprete principale, recita lavora all’estero tra Parigi, Berlino e Londra.
Il mondo dei sordi è molto complicato: c’è differenza tra sordi che parlano e sordi che non parlano. Ho imparato che c’è una differenza di lingua dei segni a seconda degli Stati, e non solamente come utilizzo gestuale dello spelling. La lingua dei segni nasce per permettere a piccoli gruppi di comunicare tra loro creando un’identità di linguaggio.
Di tutta questa importante esperienza lavorativa ho avuto conferma di una grande necessità ovvero che bisogna imparare ad ascoltarsi, in qualsiasi lingua ci si esprima.
Dire che lo spettacolo è complicato è poco. Il nostro desiderio era che fosse uno spettacolo fruibile allo stesso modo dei due mondi i quali non entrano mai in contatto completo. Una mano non permette di comprendere appieno alcune parole. La parete funge da muro come divisione di questi mondi, ma anche come collegamento che permette attraverso le finestre, la visione parziale e sfumata della scena. La stessa viene a volte utilizzata come supporto per la scrittura.
Ho dovuto imparare alcune cose molte importanti prima di ideare i costumi: non potevo usare ad esempio, stoffe fantasia perché le mani si sarebbero notate di meno. Piccole cose che mi hanno aiutato ad evidenziare la mancanza di volontà di comunicare con la figlia della madre, che no a caso, è l’unica a vestire abiti con trame a fiori.
Ho cucito tutti taschini perché nel linguaggio veloce c’era il rischio di infilarci un dito. Le maniche erano prevalentemente a tre quarti per evidenziare i gesti. La madre vestita di marrone, la ragazza di rosa, lui di grigio azzurro quasi a simboleggiare il colore del principe azzurro.
Mi chiedi di parlare della nebbia dell’inizio dello spettacolo: la didascalia dice che tutto si svolge nella testa del professore. Da qui lo spunto per raccontare un suo ricordo. E’ tutto nella sua mente, è soltanto un ricordo. I costumi saranno uguali nella prima e nella scena finale perché è un ricordo circolare.
©LauraPorettiRizman
«A spezzare il mio silenzio – ha raccontato la protagonista Rita Mazza – è stato Il grido del gabbiano, l’autobiografia di Emmanuelle Laborit, prima attrice sorda a vincere il Premio Molière, proprio grazie al personaggio di Sarah. Quel libro mi ha cambiata. Prima credevo che un sordo non avesse possibilità nella società e tanto meno in teatro. (…) Ti senti guardata come una persona che va aggiustata. Ma io non sono sbagliata, sono solo una che parla un’altra lingua. (…) In Italia non esistono compagnie professionali per sordi e le opportunità di lavoro sono poche. Così sono andata in Germania e in Francia, ho imparato le lingue dei segni di altri Paesi e sono cresciuta come attrice. Questa è la prima volta che lavoro nel mio Paese»
«Mi sono bastati 14 mesi con il gruppo di lavoro che abbiamo creato all’Istituto dei Sordi perché imparassi dai principi base come comunicare con loro» spiega Giorgio Luopano. «Solo Rita usa la LIS, per me sarebbe stato impossibile perché ha una grammatica diversa, spesso l’ordine delle parole è invertito. Quando parlo con lei in scena uso l’italiano segnato: faccio un segno corrispondente a ogni parola. I sordi in sala riusciranno a comprendermi, mentre per le parti dialogate tra attori udenti abbiamo studiato un gioco di ombre e segni su un muro bianco, che li aiuterà a a capire almeno il senso della scena (…) Ho capito che i sordi conoscono molto bene il nostro mondo e ci osservano; siamo noi a non conoscere per nulla il loro»