Merita di essere rielaborata la vicenda del movimento universitario di questi ultimi mesi: affogata da notizie apparentemente più grandi, non sono stati apprezzati fino in fondo i meriti e i risultati (seppur provvisori e non soddisfacenti) di quello che sembra un giro di boa della mobilitazione, della discussione pubblica sull’università e dell’iter parlamentare della riforma contestata.
Partiamo dall’ultimo fotogramma. Giovedì 14 ottobre era fissato l’inizio del dibattito nell’assemblea della Camera sul disegno di legge Gelmini per la riforma dell’università. Al suo posto, nel piazzale antistante Palazzo Montecitorio, si è svolta una festosa manifestazione di studenti e ricercatori: l’esame del ddl oggetto della protesta e della contestazione era appena stato rinviato sine die. Torniamo ora all’inizio.
1) Di fronte alla crisi del sistema universitario nazionale, alle campagne di stampa che ne evidenziano l’inadeguatezza e le degenerazioni, il Governo Berlusconi – sin dai suoi esordi – ci mette il carico da 11, mettendolo al centro di successive manovre di finanza pubblica che portano gran parte delle università italiane sul lastrico o in procinto di caderci. Nel frattempo, il Ministro Gelmini, sollecitata da opinionisti moralisti e interessi superficiali, avvia una sua campagna politico-ideologica contro i mali dell’università, identificati negli sprechi delle autonomie e nei poteri delle baronie. Il massacro finanziario dell’università diventa così, nella propaganda di regime, l’occasione per redistribuire – su basi “meritocratiche” – il finanziamento delle università italiane. I tagli assumono, quindi, il sapore di una scelta strategica, condita di provvedimenti pubblicitari, come la nuova disciplina dei concorsi da ricercatore – voluta, fortissimamente voluta – da Francesco Giavazzi e dal Corriere della Sera: per impedire il condizionamento baronale sui futuri concorsi da ricercatore, dalla fine del 2008 le commissioni di concorso sono composte solo da ordinari (gli unici che possano fregiarsi del titolo di “baroni”).
2) Conseguentemente, la campagna si sostanzia in un progetto di riforma che (contro lo strapotere dei rettori) affida quasi tutto il governo dell’università nelle mani dei rettori e (contro lo strapotere dei baroni) affida ai soli ordinari i pochi poteri elettivo-rappresentativi all’interno della comunità universitaria. Poi, per far contenta Confindustria, si aprono i Cda a quel privato che in Italia non ha mai voluto investire sull’alta formazione e sulla ricerca, e per far contenti i “meritocrati” si delinea la tenure track alle vongole, per cui i ricercatori non potranno più essere assunti a tempo indeterminato e dopo un paio di contratti, a prescindere dal merito, si divideranno tra i sommersi, rottamati con il loro carico di competenze e di esperienze, e i salvati, assunti come professori di seconda fascia dai soliti baroni di prima.
3) Inizia la discussione al Senato e le opposizioni sembrano appassionarsi alle virgole, più che alle parole (tanto quelle, si dice, vanno bene). Si fa strada la famosa “riforma condivisa”. Intanto l’università è divisa tra opportunismo e rassegnazione (“non c’è nulla fare”, “se facciamo i primi della classe, magari ci guadagniamo qualcosa”). Si susseguono le anticipazioni della riforma a opera di zelanti rettori. Ma ecco che si fa strada, dapprima sottotraccia, uno strano movimento: si agita l’ultima ruota del carro, quella dei ricercatori. Già banditi dalle commissioni di concorso dei loro pari (“sono condizionati dai loro superiori”, e dunque tanto vale far decidere solo a loro chi sia meritevole di entrare nel club), la riforma li mette su un binario morto: i migliori ricercatori sono quelli che non ci sono, e dunque tenure track alle vongole per chi deve ancora arrivare, ruolo ad esaurimento per i 25.000 in servizio, tanto “sono tutti nipoti dei baroni”.
4) Ma il Ministro Gelmini ha fatto i conti senza l’oste: l’università italiana, cresciuta ben oltre gli investimenti che su di essa sono stati fatti, strangolata dalle manovre di Tremonti, si regge sul lavoro volontario di questa underclass del lavoro universitario. A questo punto, i ricercatori a tempo indeterminato si assumono l’onere di svelare la truffa: senza il loro lavoro volontario, l’università italiana chiude, non domani o dopodomani, ma oggi stesso. Facendo valere il principio di legalità, rifiutandosi di fare ciò per cui non sono stati assunti, i ricercatori indisponibili ad assumere incarichi didattici che non sono loro dovuti, mostrano urbi et orbi che il collasso dell’università italiana è già qui e adesso.
5) Mentre la conferenza dei rettori, pateticamente, si accontenta delle promesse del duo Gelmini – Tremonti (l’università avrà i soldi di cui ha bisogno a fine anno, e comunque dopo che – e solo se – la riforma sarà stata approvata a scatola chiusa), complice le nubi sulla durata della legislatura e la probabilità crescente di elezioni anticipate, l’opposizione si sveglia e alla Camera inizia a fare il suo mestiere. Il Presidente della Camera ci mette del suo e resiste alle pressioni del Governo affinché la proposta venga approvata senza discussione in un fine settimana di (non) lavoro parlamentare. La maggioranza va in tilt e fa un passo verso i ricercatori, cercando di rimuovere il bastone dalle ruote: 9000 posti da professore associato nei prossimi sei anni. Non è quello che vuole il movimento, che non chiede per sé ma per l’università pubblica in via di rottamazione, tanto quanto i suoi ricercatori. E siccome i destini sono incrociati, il bluff della maggioranza e del Governo per ammansire i ricercatori si dimostra rapidamente un bluff sull’intero progetto di riforma. Come il movimento dice da quando era un’onda, l’università è senza soldi per l’ordinaria amministrazione e per la sua riforma, e finanche per la promozione di 9000 ricercatori nei prossimi sei anni (il minimo necessario per coprire i vuoti di organico che si apriranno con il pensionamento di gran parte degli ordinari e degli associati in servizio). Ragioneria dello Stato e Ministero dell’economia certificano: l’offerta della maggioranza ai ricercatori è priva di copertura nel bilancio dello Stato. Fine della storia: la maggioranza ha riconosciuto che senza soldi la riforma non si fa; il Ministero dell’economia conferma che soldi non ce ne sono.
Perché è importante tutta questa vicenda? Non siamo ancora a un successo del movimento dei ricercatori: l’università continua a essere sotto finanziata; i ricercatori di ruolo continuano a essere privi di uno status giuridico e di una prospettiva di carriera libera dai condizionamenti dei loro maggiori; i precari si stanno trasformando in volontari della ricerca e della didattica. Eppure questa storia ci dice che buoni argomenti (all’assemblea della “rete 29 aprile” dei ricercatori precari e di ruolo c’erano competenze che sulle politiche universitarie avrebbero potuto tenere testa al ministro, ai parlamentari e finanche ai direttori generali del Ministero), efficaci forme di mobilitazione (nonviolente e finanche legalitarie) e la consapevolezza di una soggettività politica (i ricercatori come “classe generale” dell’università italiana?) possono rompere un equilibrio e aprire uno squarcio nel Truman show del pensiero dominante. Altro sarà costruire una proposta alternativa a quella della Gelmini, e da soli, forse, i ricercatori non ce la faranno. Ma il giro di boa è stato compiuto.
Stefano Anastasia