La Ricerca della Felicità

George W. Bush, XIV Dalai Lama, Nancy PelosiI soldi non fanno la felicità, ma ne possono finanziare la ricerca. Questo è quanto direbbe il Dalai Lama che, con $50.000, ha recentemente finanziato il Center for Investigating Healthy Minds (centro per l’investigazione menti sane), dell’Università del Wisconsin, a titolo di una ricerca sul potere della meditazione per promuovere fondamentali valori umani, quali la compassione e la gentilezza. La notizia, pubblicata sul New York Times, riporta che il centro ha varato un progetto per insegnare la pratica di meditazione ad alunni delle scuole elementari concentrandosi su pensieri caritevoli verso famigliari, amici, sconosciuti, e perfino nemici. “Si tratta di cambiare le abitudini del cuore”, dice il professor Richard Davidson, fondatore del suddetto laboratorio di ricerca il cui progetto si concentrerà prevalentemente su studenti di quinta elementare, vista l’alta frequenza di esposizione del gruppo a circostanze molto difficili da affrontare, quali per esempio il bullismo e l’adescamento alla sperimentazione di droga. “Gentilezza e compassione ristorano la confidenza”, afferma il leader Tibetano esiliato in India ormai dal 1959, che raccomanda la gentilezza come atteggiamento positivo, di buon cuore, verso gli altri, il più possibile. “Ed è sempre possibile”, ci fa notare. Un’altra esortazione a porgere l’altra guancia, dunque? Forse, ma la sua raccomandazione a tale atteggiamento sembra contenere una promessa. Una promessa per qualcosa di molto più concretamente caro a noi tutti. Da questo atteggiamento, ci assicura il Buddista, “la felicità scaturirà sia a breve che a lungo termine, sia per l’individuo che per il collettivo”.

Un finanziamento all’istituzione statunitense per la ricerca della felicità, dunque. Proprio quel diritto che nel preambolo della dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America viene sancito e descritto a fianco di quelli della Vita e della Libertà come diritti “inalienabili”, dati in dotazione ad un’umanità egalitaria da un impersonale ed imparziale “Creatore”. La menzione del perseguimento della felicità come diritto costituzionale democratico è l’aspetto più caratteristico ed ambizioso dei documenti istitutori di quella che per due secoli ha rappresentato, nel disegno, un modello di democrazia in tutto il mondo. Thomas Jefferson, il principale autore del documento, dal quale si ispira anche il grande motto rivoluzionario francese, “liberté, egalité, fraternité”, si ispirava a vari autori di filosofia dell’Illuminismo, particolarmente a John Locke.
Una versione precedente della dichiarazione d’indipendenza, scritta e proposta da George Mason, dello stato della Virginia, includeva tra i diritti alla Vita e alla Libertà anche quello di acquisire i mezzi per il possesso di proprietà. Jefferson preferì omettere la proiezione della proprietà come uno degli obiettivi del governo per sostituirla con l’idea della Felicità. Eppure, più di duecento anni dopo, la situazione attuale negli Stati Uniti, come anche nella stragrande maggioranza delle nazioni del mondo, è tale che qualcuno è portato a domandare al Dalai Lama perché i cittadini statunitensi siano così infelici: egli risponde giocosamente, “Sono la persona sbagliata a cui domandare. Dovreste domandarlo agli americani”. Poi riprende: “In linea generale, credo che troppo di un tipo di società troppo competitiva, qualcosa di nuovo, qualcosa di più, qualcosa di più, qualcosa di più. Anche quello potrebbe essere una causa di ansia ed infelicità”. Gli americani amano di tutto di più, questo è ben risaputo, ma anche sempre più delle stesse cose che accadono negli Stati Uniti accadono ormai in tutti i paesi occidentali, se non a livello globale.

È fatto ben noto che ovunque nel mondo cittadini e governi sono alle prese con quella che è chiaramente una crisi globale dei sistemi. Oggigiorno di crisi ce ne sono in abbondanza, e non mancano all’appello quelle dei principi di tolleranza e di libertà di pensiero, o di informazione. Condizioni precarie civili molto simili a quelle a cui sorgeva in contrasto l’età dell’illuminazione intellettuale: l’Illuminismo. Ma la crisi non è certo solo civile o culturale. È anche una crisi finanziaria, energetica, ambientale, alimentare, dell’istruzione, della salute, la disoccupazione. Di conseguenza, le classi sociali si stanno separando sempre di più tra discrepanze nelle proporzioni dei redditi sempre più abissali. Questi sono fatti che oggi caratterizzano anche la realtà delle nazioni più civilizzate, industrializzate ed evolute del mondo: le nazioni cosiddette più democratiche del mondo. Ma se tutto ciò è in crisi, inclusa la nostra abilità a perseguire la felicità, ne segue che la democrazia è in crisi. La parola democrazia, parola greca del periodo classico, lo stesso periodo dal quale traevano ispirazione i pensatori dell’Illuminismo, è il “governo del popolo”. Quindi, se il governo del popolo è in crisi significa che la partecipazione del popolo al processo politico è, al meglio, imperfetta. Non è a caso che il grande filosofo classico, Aristotele, sosteneva che l’uomo è un essere politico. Ma come possiamo sperare di essere partecipi della democrazia, (parola in fin dei conti vuota finché non si ha una partecipazione del 100%) mentre non abbiamo nemmeno il tempo di respirare tra lavoro, studi, famiglia, accumulazione di proprietà con relativi debiti da pagare, con paghe strutturate puramente per tenerci alle strette?

Dai grandi pensatori greci, alla grande ingegneria della Roma imperiale, al dominio su un quarto delle superfici navali e terrestri dell’impero britannico, la rivoluzione ideologica e culturale nonché politica degli Stati Uniti d’America doveva essere il progetto più ambizioso che l’umanità avesse mai avuto il coraggio di intraprendere nella storia della sua civilizzazione occidentale. Invece quando si guarda la carta geografica, dalla Grecia all’America l’espansione occidentale sembra più una corsa folle che finisce in suicidio collettivo negli abissi delle acque di quello che è l’oceano più vasto, profondo, ma anche il più pacifico della terra. Eppure una voce, un’idea, un tempo fu espressa dall’Oriente e le vibrazioni del suo eco riverberano ancora nelle culture che ha attraversato.

Ma ora tutto sembra cadere a pezzi. Se quello che manca alla democrazia è una colla che possa mantenere tutti i pezzi assieme, è chiaro ormai che questa debba venire dal popolo. Il popolo deve unirsi, ma non in rivoluzioni con i loro soliti falsi risultati a favore dei soliti falsi leader, quindi non sotto grandi idealismi, o fondamentalismi religiosi, ma attraverso ciò che li accomuna veramente tutti, indiscriminatamente. Se l’oggetto è la felicità, e crediamo davvero nel nostro potere di vivere in armonia con noi stessi ed il mondo, dall’occidente all’oriente, impariamo ad essere gentili, con noi stessi e gli altri, il più possibile. Ed è sempre possibile.

Andrea Tamburini

2 thoughts on “La Ricerca della Felicità

  1. Sull’importanza della gentilezza sono d’accordo. C’è chi è gentile d’animo, quindi chi ha una gentilezza innata, e chi la coltiva con l’esercizio quotidiano come valore da perseguire. In ogni caso non credo che sia il vero mezzo per il raggiungimento della felicità personale, tantomeno di quella collettiva, così come sono convinto della grande emergenza adattativa in cui ci troviamo, che non ci permette il lusso di perdere tempo ad affrontare il problema sbagliato, perché al massimo potremmo trovare delle soluzioni inutili.
    A mio avviso quello che ci accomuna tutti non è la gentilezza, ma la nostra natura di esseri umani con le sue prerogative (di cui la gentilezza è solo un elemento) e con i suoi limiti. Quello che manca alla democrazia non è una colla, ma la consapevolezza del suo vero significato, che purtroppo molti confondono con quello del suffragio universale. Della storia bisogna assolutamente tener conto, soprattutto per non commettere gli stessi errori, ma né gli antichi greci, né gli antichi romani, né gli antichi inglesi, né gli antichi statunitensi (perché tali sono, risalendo ad oltre due secoli fa) avevano le necessarie conoscenze di biologia, etologia, sociologia, psicologia, antropologia, che permettono di inquadrare la natura umana, e quindi ogni loro assunto, per quanto insegnato nelle scuole, raccomandato dai genitori, amplificato dai media e condiviso con gli amici, non può non essere viziato o quantomeno limitato dalle suddette carenze. Per raggiungere una completa felicità individuale non si può prescindere dalla felicità collettiva e per avere una felicità collettiva bisogna risolvere i problemi della collettività, ma qual è la nostra collettività? In realtà ne abbiamo diverse: famiglia, amici, quartiere, città, stato, mondo. Ognuna di esse ha i suoi problemi che vanno risolti con le risorse della comunità di riferimento, i problemi sono tanti, tantissimi, ma alla fine possono tutti essere considerati come derivati dei problemi radice, quelli che come vere radici alimentano e sostengono tutti gli altri, e che come tali vanno estirpate contemporaneamente per impedire che tornino a germogliare. I problemi radice in fondo sono “solo” quattro: ignoranza, disinformazione, frammentazione sociale e assenza di democrazia. Se qualcuno può dirlo al Dalai Lama, sicuramente gliene sarà grato.

  2. Originale ed interessante nelle sue varie riflessioni,credo pienamente condivisibile, purtroppo, solo da chi è già di animo gentile per sua natura. Queste dichiarazioni del Dalai Lama quindi possono guidare bene chi vuole essere guidato nella giusta direzione. Non servirà con gli altri, dovremo pensare per loro a qualcosa di diverso ma non so ancora cosa…

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